questa pazza paura d’un attentato chimerico
Manzoni
Inutile dirlo, alla fine de The science of sleep sono uscito con gli occhi pieni, svuotati ma pieni. Stracolmi. Da quando ho visto il film, qualche mese fa, ho aspettato e ho dato un’occhiata alle recensioni che mi capitavano. Il punto in comune fra quelle lette qui e in Italia è la distanza. La distanza dal film, dalla materia girata, insomma per farla breve, distanza dalla vita. Le varie analisi del film si attestano sul livello di sperimentazione artigianale di Gondry o – non so – sul modo in cui, nel film, sono messe in scena le giornate bizzarre di un’artista o ancora sul fatto che, massimo livello epistemico raggiungibile dai “critici”, a volte è difficile distinguere tra sogno e realtà. Quando poi leggo qualcosa di positivo, sono soltanto elogi vuoti e inconsistenti. Nessun critico che rischia, che si arrischia in un salto al di là della falsa oggettività giornalistica, che si allontana da una fasulla neutralità sorretta da una cintura di sicurezza ben allacciata agli occhi e al cervello. Domanda: come è possibile, dopo aver assistito a un film come questo, posizionarsi rozzamente dall’“altra parte”, nel suo “fuori”, nella realtà “oggettiva”?
Eppure il regista lo fa capire subito, non appena comincia il film, che il dentro è il fuori, che lo spazio in cui ci si assesterà è quell’impalpabile e carnevalesca macchina lumiére che è la testa, con i suoi orifizi spettacolari che cercano di allestire le esibizioni della memoria. Occhi che diventano, così, nello stesso tempo, attivi e passivi. Occhi che svolgono il doppio ruolo di macchine da presa posizionate per registrare ciò che accade e che diventano lo spazio stesso della rappresentazione. È come se “il” regista Stéphane/Gondry sparisse fra gli incontrollabili fantasmi di un teatro interno, visto anche non sa dove ben posizionare le comparse di se stesso, degli altri e del proprio cuore. Ovvero, occhi come protesi libidiche di un Amleto che non deve portare in scena più nulla nel teatro di famiglia, visto che il teatro non è altro che (in) se stesso. Quando poi la vita, gli altri o la scienza del lavoro, impongono una certa dose di realtà a Stéphane, noi spettatori assistiamo a una sua perpetua rinascita, ogni volta e di nuovo a una sua venuta al mondo, come se il principio della realtà in Stéphane, tutto il giorno, tutti i minuti, si costringe a prendere il posto su quello del piacere – ennesimo trapianto di corpo, di occhi, nel senso che la sostituzione non è facile e innocua come un cambiarsi d’abito. Perché, qui, si sta parlando di un mondo che ne spodesta un altro, e di tutto il dolore rivoluzionario che questo implica – valga su tutte la scena in cui Stéphanie cerca di non far addormentare Stépahane al telefono…
“– non (mi) resta quasi nulla: nè la cosa, nè l’oggetto puro, nessun interesse di nessuno per nessuna cosa esistente. Eppure, io amo: ma no, è ancora troppo, è ancora un modo di prendere interesse all’esistenza, senza dubbio. Io non amo, ma provo piacere per quello che non mi interessa, o almeno a ciò che è indifferente al fatto che io ami o non ami. Questo piacere che prendo, io non lo prendo, ma piuttosto io lo rendo, io rendo quello che prendo, io non lo prendo, io ricevo quello che rendo, io non prendo quel che ricevo. Eppure io me lo dò. Ma posso dire che me lo dò? È tanto universalemente obiettivo – nella pretesa del mio giudizio e del senso comune – che non può venir che da un mero al di fuori. È inassimilabile. Al limite, questo piacere che mi dò, o meglio al quale io mi dò, per mezzo del quale io mi dò, io non lo provo neppure, se è vero che provare significa sentire: fenomenicamente, empiricamente, nello spazio e nel tempo della mia esistenza interessata o che si interessa. È un piacere la cui esperienza è impossibile. Io non lo prendo, non lo ricevo, non lo rendo, non lo dò, non me lo dò mai, perchè io (io in pesona, soggetto esistente) non ho mai accesso al bello in quanto tale. Io non ho mai piacere puro in quanto esisto.”¹
Questo funziona, o meglio ha sempre funzionato in Stéphane, e sua madre sembra ribadirlo. Cosa rompe il meccanismo, che cos’è che scardina questa magic box? È Stéphanie. Forse Gondry ci vuole suggerire che è l’amore a fracassare i meccanismi distorcenti e sublimi di Stéphane? O meglio, è l’impossibilità di collocare anche Stépahnie tra le fila di fantasmi interiori privi di allusività concreta che manda a rotoli Stéphane? Allora il film è una lotta interna, esterna e sfinente di Stéphane per cercare di costruire un piano di contatto con Stéphanie, lotta votata al fallimento perchè Stéphane non ha un dentro e un fuori che può decidere di spegnere o accendere come un interruttore, come una artigianale macchinetta del tempo, anch’essa destinata al malfunzionamento. Ed è emblematico che un vero scambio, il primo fra i due, a quanto pare, avvenga con uno Stéphane sonnambulo. A quel punto – ma aggiungiamoci pure l’inutile corsa verso il primo appuntamento, o anche l'inettitudine a condurre razionalemente una festa – è la girandola dell’impossibilità di una forma, di un contatto, di una vita condivisa: è la testa che si rompe sulla porta, ed è il sangue di questa ciò che resta – l’unico liquido vitale uscito da Stéphane...
“Godere senza utilità, in pura perdita, gratuitamente, senza rinviare a nient’altro, sempre in passivo – ecco l’umano. [...] Egoista senza riferirmi ad altri – sono solo senza solitudine, innocentemente egoista e solo. Non contro gli altri, non «sulle mie» – ma assolutamente sordo nei confronti di altri, al di fuori di qualsiasi comunicazione e di qualsiasi rifiuto di comunicare – senza orecchie come ventre affamato.”²
¹J. Derrida, Il parergon, 1974, in Id., La verità in pittura, ed. Newton & Compton 2005, p. 50.
²E. Lévinas, Totalità e infinito, 1971, sez. II, B. “Godimento e rappresentazione”, ed. Jaca Book 2006, p. 135.
12 commenti:
ora che lo so, la prossima volta che esco dal cinema vado subito a leggere la recensione sul Geymonat in 12 volumi...
mhmm non lo so fooosco, il geymonat e' troppo ateo, preferisco il buon vecchio reale-antiseri...
Reale? mhmm... cattolico... mhmm
ti sento scettico, fooosco. allora colgo questa occasione per scivere il prossimo post: un panegirico sulla superiorita' della manualistica cattolica per l'educazione superiore italiana del XXI sec.
si vede che il film ti è piaciuto!
sergio: ma sai che te lo stavo proprio per proporre? :D (scherzo eh, sia chiaro...)
noooh fooosco, ero già a buon punto!
però si poteva continuare ancora per un po'...
oh!!!!
me raccomando... CONCISO!!!!
:)))))
fede
ora mi dovete spiega' perchè l'unico indirizzo che non visualizza MAI è il mio. eh???
semprefede
fede, io di solito scrivo il commento e poi fra le identità scelgo "altro". da lì scrivo nome e pagina web (compreso http://).
Sì, ogni volta...
Come , ci vuole troppo?
Beh, questo è l'unico modo per avere un link diretto al tuo blog!
Come, hai già tanta gente che ci va al tuo blog e non hai bisogno di link?
E allora che lo chiedi a fare?!
...senti fosco! è inutile che rosichi perchè il mio blog è meglio posizionato del tuo in classifica!
io sotto "altro" ce vado, e scrivo nome e indirizzo, solo che non me lo visualizza!
'sto rosicone.
ah?
compreso http://?
ehm...
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