22 luglio, 2006

Parole adottate, parole adattate - 1

Reduce dall'ultima serata della Milanesiana, stuzzicato da una conversazione fra Marino Sinibaldi e Alessandro Bergonzoni (una cum-vessazione?), mi sono fatto delle domandine anch'io su banalità preserali come i concetti di parola, senso e semioticume vario.
No, non mi va proprio di stufarmi (e stufarvi) con riflessioncine sulla corrispondenza più o meno arbitraria fra significato e significante. Piuttosto mi sono reso conto che nell'ultimo periodo di parole ne ho usate tante: per dare nomi alle cose, per isolare uno stato d'animo dal più ampio flusso delle sensazioni, per circolettare l'aspetto saliente di una situazione più complessa.
Adesso mi chiedo: le parole sono tenute in vita dall'uso che ne facciamo, eppure un eccesso d'uso può rendercele familiari al punto di privarle di peso specifico, fino a darle per scontate. E fin qui, storia vecchia.
Ma cosa succede se una parola (o una famiglia di parole) entra improvvisamente, e da protagonista, nelle nostre abitudini lessicali? E' probabile che si riduca quasi a un intercalare, o che spunti senza preavviso a colmare tutti i buchi delle nostre conversazioni: è il caso di quando tutto ciò che è bello diventa invariabilmente particolare, o intrigante, o carino, o - peggio ancora - cool.

E' da qualche tempo che per noiosissime ragioni personali mi ritrovo a dire (e a dirmi) cose poco simpatiche: prime fra tutte idiota e idiozia. E arrivo al punto: consultando il vocabolario, come per un tentativo a posteriori di farmi chiarezza (o giustizia, se preferite), vedo le mie due parole sezionate, mentre dai loro pancini aperti sbucano queste altre parole più piccole, elementari, che - mettendosi in fila - cercano di cantar la gloria delle spoglie mortali del corpo-parola più grande che le ospita e contiene. E scopro che il mio abuso di idiota e idiozia non era affatto fuori luogo. E che, anzi, a suo modo aveva qualcosa di genuinamente intuitivo. E' come se, una volta adottate dal nostro linguaggio abituale, le parole ci dessero la sensazione di essersi adattate a quello che in qualche modo tentavamo di esprimere.
In questo caso, davvero una magra consolazione.

i|diò|ta
agg., s.m. e f.
1a agg., s.m. e f. AU che, chi è molto poco intelligente: essere un perfetto, un povero i., una ragazza i., quell’i. ha rovinato tutto; anche come insulto: guarda cosa hai combinato, i.!
1b agg., s.m. e f. TS med., che, chi è affetto da idiozia
2 agg. AU di qcs., che rivela idiozia: risposta i.; sorriso, sguardo i.; scherzo i.
3 s.m. e f. OB persona rozza

i|dio|zì|a
s.f.
CO
1a imbecillità, stupidità
1b discorso o azione da idiota: dire, fare idiozie
2 TS med., grave ritardo dello sviluppo mentale caratterizzato da carenza delle capacità affettive e difficoltà a comunicare per mezzo del linguaggio


Le definizioni sono tratte dall'edizione
on-line del
Dizionario De Mauro Paravia



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