10 novembre, 2006

Chi insegna ai bambini? Il contatto

Nel post precedente si è acceso un dibattito sul reale vs virtuale.
Cosa è meglio per il bambino: il gioco per strada o il gioco interattivo?


E' una questione di proporzioni.
Gli occhi pixelati di una principessa possono dire più cose degli occhi di mia cugina o degli occhi descritti da Joyce.
Non credo che la realtà sia meglio del virtuale perchè, come dice Pasquale, le due dimensioni non si contendono la conquista dei nostri cervelli.
Sostengo che ci sia una forte sproporzione tra cultura del gioco al computer in solitudine e quella del gioco per strada, in gruppo.
Penso che sia più urgente saper comunicare senza facili nostalgie, che il gioco per strada, in gruppo, ha delle potenzialità trascurate.
Per potenzialità intendo divertimento. Per divertimento intendo partecipazione e per partecipazione intendo contatto.
E' il contatto non controllato dai genitori, non controllato da chi ha scritto il libro che stai leggendo o il videogioco con cui giochi che accende la responsabilità nell'uomo, la necessità di sbrigarsi le cose da soli, di misurare la propria forza, allenarla, di mettere in gioco la propria intelligenza in un sistema che NON è precostruito e si contraddice di volta in volta.

Non voglio fare paragoni tra reale e virtuale.
Non mi interessa e non metto in dubbio che possano esistere videogames belli. Figuriamoci. I capolavori si fanno con i gessetti, figuriamoci con i pixel...
Non è il videogames il problema, bensì l'assurdità di non condividere le esperienze.
Quando la causa è una legittima timidezza del bambino, va bene, ognuno ha il diritto di essere introverso ma quando ci si mette di mezzo quel disastro di meccanismo mentale che porta gli adulti a tenere i propri bambini da soli col videogames (o con i masters o se vi piace di più con le pietre colorate e la bambola di pezza) per salvaguardarli dai pericoli del mondo, allora è automatico aspettarsi una generazione di citrulli.
Ai nostri amici, ai nostri concittadini e ai nostri bambini non serve ricordare che i videogames sono belli o diseducativi, brutti o intelligenti perchè il videogames è una realtà che funzionerebbe in ogni caso.
Pensiamo alle conseguenze delle nostre parole.
Ai nostri amici, a chi ci è intorno dobbiamo far notare che nelle nostre città, per esempio a Vittorio Veneto (dove vivo e dove sino ad ora, che io sappia, nessun bambino è stato stuprato, nessuno ucciso, nessuno picchiato), non si vede un bambino che gioca per strada.
Neanche con il gameboy.

(immagine: Pieter Brugel, Giochi di fanciulli, 1560)

1 commento:

matteo bergamelli ha detto...

Quello che dici in questo post, scritto in maniera molto chiara e precisa, lo condivido.
Mi pare che tu abbia centrato il punto.
Quali sono le conseguenze di questa mancanza di contatto?
Il mondo dei videogiochi è affascinante, strabiliante, ok, lo ammetto, è puro sballo.
Ma mi chiedo: possiamo permetterci di confondere i due mondi?
Il mondo dei videogame e “l’altro” mondo (non quello vero, quello giusto, semplicemente l’altro) sono compatibili?
Se io sparo ad un uomo in un videogioco o ad uno in carne e ossa come me, potrò anche provare le stesse emozioni ma ho prodotto le stesse conseguenze?
Non sto parlando di etica, lasciamola stare per un momento, l'etica è roba da checche, direbbe Ferrara; analizziamo solo le conseguenze.
In tutti e due i casi il soggetto attivo sono sempre io ma è l’oggetto passivo a cambiare; se io sono consapevole di questo sono anche in grado di gestire questa differenza ma, se al contrario, non lo sono la differenza si trasforma in un vero e proprio corto circuito.
Tra le potenzialità di quei giochi, di quel contatto di cui parla Roberto, oltre al divertimento, che è già tanto, c’è anche la capacità di “distinguere le cose”. Non mi sembra poco.