Ultimamente sto dedicando qualche attenzione - sottolineo il "qualche" perché non voglio fingermi un esperto - alla storia del nostro Paese. O meglio, al modo in cui il nostro Paese ha (mal)digerito la sua storia e più in genere alla nostra umana capacità - necessità, voglia - di raccontarci come società, popolo, nazione. Nei post precedenti ho lasciato la parola a Hobsbawm e a Pasolini. Stavolta è il turno di Leonardo Sciascia e di un libro a cui sono da anni molto legato.
Perciò mi chiedo com'è possibile che così le posizioni si siano rovesciate, e la risposta mi viene da quello che io ho visto quando il fascismo è crollato, i fascisti nel Comitato di Liberazione, i fascisti che epuravano, gli antifascisti veri sconvolti e pensosi per gli avvenimenti, pietà e pudore li allontanavano dal giuoco delle vendette e delle ricompense, rischiarono di essere considerati fascisti: questo avveniva qui, l’oggetto dell'odio subito divenne piccolo e vile, il fascista apparve abbietto e implorante, in un vero uomo non poteva che far scaturire pietà, meglio dove il fascista impugnò l’arma ed uccise, si mise al di fuori della pietà.
Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra
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